Per comprendere le ragioni dei benefici della mindfulness, bisogna esplorare una delle principali cause della sofferenza emotiva, noto come evitamento esperienziale, cioè la tendenza a lottare contro alcuni aspetti della nostra esperienza interiore in quanto ritenuti sbagliati, incongruenti, inopportuni, inadeguati, cattivi, etc. Insomma, alla base della sofferenza emotiva vi è sempre il tentativo di sbarazzarsi di idee, pensieri ed emozioni che non sono ritenuti appropriati in quanto non si allineano con l'idea che abbiamo o che vorremmo avere di noi stessi. Questo tentativo è naturalmente vano e comporta solo irrigidimento, complicazioni e sofferenza.
La pratica della mindfulness insegna invece a riconoscere le proprie emozioni e i propri pensieri, accogliendoli così come sono, nella loro semplice realtà percettiva. Insegna ad accettare un'idea di se stessi molto più ampia e complessa di alcuni stereotipi rigidi che abbiamo costruito noi stessi per difenderci da inesistenti nemici o pensieri. La pratica della mindfulness insegna allo stesso modo a non essere immediatamente coinvolti dalle proprie emozioni e a non reagire ad esse automaticamente. Questo duplice allenamento porta ad una maggiore flessibilità cognitiva, rompe le catene della sofferenza psicologica, e lascia al loro posto maggiore libertà di azione e maggiore resilienza o capacità di adattamento flessibile.
Vorrei solo sottolineare due concetti, in quanto frequentemente vittime di malintesi. Innanzitutto, voglio chiarire che il concetto di accettazione, insito nella pratica della mindfulness, non deve essere confuso con quello di rassegnazione. Se la rassegnazione implica una rinuncia ad agire rispetto agli eventi, la mindfulness, al contrario, partendo dalla consapevolezza di ciò che è, predispone a muoversi in direzione dei propri valori più profondi ed autentici. La pratica della mindfulness si propone, infatti, di sostituire alcuni comportamenti reattivi, automatici e distruttivi con scelte consapevoli ed appropriate al contesto. Un altro aspetto importante, eppure frequentemente spesso trascurato, è che la pratica della mindfulness non vuol dire soltanto meditare, cioè dedicare alcuni minuti al giorno alla pratica formale della meditazione. La forza terapeutica della mindfulness deriva soprattutto dallo stimolo a introdurre nella propria vita degli squarci di consapevolezza che consentano di superare alcuni automatismi e sostituirli con scelte più sane e costruttive.
La mindfulness è quindi un’attitudine umana universale: è l’intenzionale, non giudicante, modalità di essere attenti, con la mente e con il cuore, al dispiegarsi dell’esperienza, nel momento presente. In tal modo una persona può interrompere i propri abituali automatismi di reazione. Si tratta di imparare a schiacciare il tasto pausa, per evitare di continuare a mettere in atto reazioni comportamentali inadeguate o rappresentazioni del sé non autentiche: questo è un passaggio cruciale per recuperare il benessere psicologico e l’integrazione mente-corpo.
Ciò detto, ecco le tre abilità fondamentali che vengono apprese e coltivate con la pratica quotidiana:
- Apprendere ad ancorarsi al momento presente, invece di essere coinvolti o travolti dalle emozioni catastrofiche, depressive o di bisogno compulsivo.
- Apprendere a riconoscere i pensieri in quanto tali, e a non considerarli dati di fatto. Questa componente del lavoro basato sulla mindfulness non deve essere confuso con la ristrutturazione cognitiva. Se nella ristrutturazione cognitiva ci si prefigge di modificare le convinzioni ed i pensieri, con la pratica della mindfulness si persegue invece il “decentramento” o de-identificazione dai propri pensieri.
- Superare la tendenza all’evitamento esperienziale, caratterizzato da atteggiamenti di fuga e di rifiuto nei confronti dei propri pensieri, emozioni e sensazioni fisiche e sostituirlo con una maggiore benevolenza verso se stessi.
Che relazione ha la mindfulness con la meditazione? In effetti l’approccio della mindfulness deriva ed è basato sulla meditazione di consapevolezza (vipassana) – una delle principali tradizione meditative del buddhismo classico – e consiste proprio nel proporre un livello introduttivo, iniziale di pratica di meditazione che sia adeguato e adatto a contesti quotidiani, all’esperienza di vita normale che sperimentiamo tutti i giorni. In sintesi un approccio che possa aiutarci a metterci in una diversa relazione col disagio, che prima o dopo, in un modo o nell’altro, tutti sperimentiamo.
Cosa non è la mindfulness (e con cosa rischia spesso di venire scambiata…)? Non è una tecnica di rilassamento. Non è un modo per entrare in qualche forma di trance, né per svuotare la mente e raggiungere il “vuoto”. Non è una modalità per garantirsi un facile benessere psicofisico (che non esiste…). Non è una sorta di “spa emozionale”. Non è una forma di “buonismo” che ci spinge ad accettare tutto, ad accogliere acriticamente quello che ci accade, ad essere passivi nel nome dell’accettazione.
Dove è stato applicato soprattutto l’approccio delle mindfulness? Non stupisce che le applicazioni primarie siano state e ancora rimangono in area clinica: il lavoro pionieristico trentennale di Jon Kabat-Zinn, professore di medicina presso la University of Massachusetts ha avuto un larghissimo seguito sia nell’ambito della medicina che in ambito psicoterapeutico. Il perno delle applicazioni consiste nel potere liberatorio della consapevolezza. Più recentemente tuttavia le applicazioni si sono estese all’ambito educativo, formativo e organizzativo come proposta di un vero e proprio stile di vita più salutare in quanto più consapevole.
Mindfulness e ricerca scientifica. Una caratteristica di fondo dell’approccio della mindfulness è lo strettissimo legame organico con il pensiero scientifico e la ricerca: è nato infatti a partire da personaggi che sono scienziati, ricercatori, clinici e da subito si è sviluppata tanto sul campo, nella sperimentazione pratica, quanto a partire da scientifiche ricerche rigorose che cercano di verificarne l’effettiva efficacia e i meccanismi di funzionamento. Oggi la ricerca sui vari temi legati alla prospettiva della mindfulness è un’area molto “hot” della scienza e in espansione esponenziale, con diverse centinaia di articoli di ricerca pubblicati ogni anno sulle principali riviste scientifiche di settore.
Alcuni degli esercizi che proponiamo nei nostri corsi di rilassamento consapevole e di riduzione dello stress (MBSR) derivano dalle antiche pratiche della
meditazione Vipassana secondo il lignaggio di Sayagi U Ba Khin.
Ci preme dunque esprimerci sul cosa voglia dire meditare e su che tipo di meditazione si propone in questo studio.
Cos’è la meditazione?
Ci muoviamo nella direzione della centratura della propria persona, in una condizione di silenzio, quiete mentale e di vitale flusso
corporeo.
Meditare è addestrarsi in ciò che è stato chiamato ‘la visione profonda’: è una seme che si espande sempre più, in grado di mutare
radicalmente il nostro stare nel mondo, il nostro vivere la vita. Meditare non significa rifugiarsi nel proprio paradiso mentale, bensì
avere un contatto semplice e diretto con la realtà, liberi dagli innumerevoli filtri che si interpongono tra l’atto dell’osservare e ciò che è concepito come osservato.
Siamo pressoché completamente assenti alla nostra realtà, sempre immersi nel mentale, con ciò di cui esso è fatto (attaccamento,
avversione, rimandi al passato, proiezioni verso il futuro, preoccupazioni e giudizi riguardo al presente); si tratta invece di attivare un lavoro di
presenza al nostro intimo sentire e agli schemi che lo condizionano.
La meditazione non è staccare la spina: è lo stato naturale della mente, la sua semplicità, è il lasciare andare la presa
, la quiete originaria. La meditazione è attenzione, è osservazione, non si tratta di cosa stai facendo, ma di come lo
fai: non disturbare la tua natura, non ostacolarla, non reprimerla, semplicemente osservala, semplicemente sentiti. La meditazione è non-fuggire: è rilassarsi ed essere nel momento che stai vivendo ora, nel presente. È permanere nel qui e ora!
Cosa non pratichiamo nel nostro studio
Esistono le cosiddette "meditazioni guidate"( il praticante è guidato dalla voce dell'insegnante di turno, il quale lo conduce attraverso
un percorso mentale-immaginifico assai allettante e rilassante), ci sono forme di meditazione che implicano l'uso di mantra (parole o
frasi, spesso in sanscrito, ma non solo, che vengono ripetute vocalmente o mentalmente), infine sono in uso anche pratiche meditative nelle quali si
visualizzano certe immagini (una figura di una particolare divinità, un mandala, uno yantra, una forma grafica particolare, una
determinata figura geometrica, un colore, ecc.).
Queste tecniche hanno un loro effetto piacevole, soddisfacente e gradevole, sia a livello della mente (che subisce una sorta di rasserenamento e si riesce
a concentrare su di un oggetto senza sviare da esso dopo poco tempo) che a livello del corpo (che si riposa, si distende).
Tuttavia noi, qui, scartiamo questo tipo di impostazioni della tecnica meditativa (e altre analoghe).
Perché?
Essenzialmente perché riteniamo la pratica meditativa come un atto di consapevolezza, di lucidità e di indagine profonda della propria persona.
L’indagine profonda impone una condizione di silenzio e di ascolto profondo ed esteso della nostra macchina psico-fisica. Per sviluppare questo atto di
consapevolezza è pertanto necessario che il nostro impegno sia teso all'osservazione, all’investigazione del funzionamento del corpo, delle sensazioni,
della mente, dei pensieri. E solo a questo!
Ci impegniamo quindi per una pratica meditativa che acceda sottilmente nella nostra mente, che non scada
in una semplice ricreazione mentale.
Non promettiamo alcun cambiamento repentino ed eccezionale. Non si lavora sulla superficie, ma nel labirinto della mente. La trasformazione sarà quindi tanto impercettibile quanto profonda. È quasi una legge fisica: la velocità dei cambiamenti è inversamente proporzionale alla loro durata.
Inoltre non ci accostiamo alla meditazione con un approccio religioso. Pur praticando forme di meditazione buddhista non vediamo nel
buddhismo una nuova opzione religiosa, ma un metodo, uno strumento, una disciplina di investigazione e realizzazione.